giovedì 6 giugno 2013

Quel che resta dell’Unione

La recente chiusura della procedura per deficit pubblico eccessivo a carico dell’Italia, aperta nel 2009, dopo che i conti pubblici avevano sforato il tetto del 3% del deficit/pil fissato dai parametri di Maastricht, fornisce l’occasione per fare il punto su cosa ci resta di questa Unione Europea.
Una notizia come questa – la dimostrazione che i sacrifici di natura fiscale imposti a partire dal 2011, equanimi o meno che fossero, hanno dato un risultato tangibile e riconosciuto – fino a poco tempo fa avrebbe avuto un risalto ben diverso, non solo da parte dei media, ma anche come semplice percezione comune d’aver raggiunto un risultato importante e indubbiamente sancito come tale.

Invece no, la notizia ha destato il minimo interesse, giusto per sapere se possiamo ricavarne qualcosa da spendere, non si sa bene come e quando, in fantomatici investimenti o allentamenti della pressione fiscale.
Questo diffuso disinteresse è un termometro che misura la sostanziale disaffezione del nostro Paese dalle istituzioni sovranazionali europee: l’Unione Europea oggi è sempre più percepita come mera somma di nazioni eterogenee in competizione tra loro.
Un’ondata di bieco individualismo o di scarse lungimiranza e lucidità, ci fa ignorare che respingere l’Unione sarà alla base di tutti i nostri guai continentali. Scivolando dall’euroentusiasmo all’euroscetticismo, facciamo il gioco di una crisi economica che si alimenta e prospera di qualunquismo, diffidenza, panico. Proprio i sentimenti che sempre più europei nutrono verso le loro istituzioni comunitarie. Non ci sono motivazioni razionali, tant’è che coloro che esprimono e diffondono questi sentimenti non sanno fornire argomentazioni oggettive e razionali, al più partono da considerazioni avulse dalla realtà.

Si scrivono profluvi di parole sulle cause che stanno conducendo il modello UE verso il fallimento, ma la maggior parte dei cittadini europei preferisce ignorare il problema, probabilmente pensando che, più che il problema, sia una concausa di problemi più gravi e impellenti. Anche le istituzioni nazionali, alla disperata ricerca di consenso e spesso ostaggi delle proprie potenti corporazioni, hanno gioco facile nell’indicare quale capro espiatorio un’UE che drena risorse, impone austerità, ostacola la crescita economica. E allora aggravano la situazione, preferendo aumentare le tasse, non pagare i fornitori, perdere posti di lavoro piuttosto che tagliare le spese e colpire interessi costituiti che comprometterebbero futuri successi elettorali. D’altronde la storia insegna che è normale, e in parte comprensibile, che, immersi nella bufera di una crisi che attanaglia, molti siano preda di ragionamenti troppo facili e delle propagande più retrograde.

Tralasciando le responsabilità delle attuali classi dirigenti europee, miopi e impotenti, risulta chiaro un punto fermo, incontrovertibile: occorreva fare di più e fare meglio quando il contesto di prosperità e di crescita lo permetteva. Dopo aver tagliato lo storico traguardo della moneta unica nel 2002, ci si è cullati sugli immani benefici che l’Euro ha comportato (checché ne pensino gli ignoranti detrattori): basti citare, oltre ai benefici diretti sugli scambi, i vantaggi finanziari di cui hanno goduto privati e imprese e il contenimento dell’inflazione, solo per citarne alcuni che si danno per scontati.
All’introduzione della moneta unica, che doveva essere il primo pilastro di una futura confederazione di stati uniti, è seguito un decennio di immobilismo decisionale, unito ad alcune scelte politiche sciagurate, che oggi impediscono di reagire in maniera unitaria ed efficace al critico contesto finanziario, economico e sociale.
Qualche esempio:
  • Che fine ha fatto l’obiettivo di creare un esercito unico e il progressivo smantellamento di quelli nazionali, che doveva essere il secondo pilastro della futura confederazione?
  • Perché il pur nobile tentativo di riunire la politica estera dell’UE sotto un unico Alto rappresentante è stato vanificato con la scelta ridicola di una rappresentante inglese? Proprio gli inglesi, antieuropeisti per antonomasia? Un modo per silurare in partenza la creazione di un’istituzione strategica per tutta l’Unione. Forse perché nessuno degli stati voleva privarsi di avere la propria voce indipendente in capitolo? I risultati si sono visti subito con la guerra in Libia del 2011, in cui ciascun paese europeo si è espresso ed ha agito come voleva, lasciando l’Unione Europea nella più completa irrilevanza.
Mappa – Gli Stati membri dell’UE 1986 © Stefan Chabluk - Immagine tratta dal sito http://europa.eu
Ciò che, però, più di tutto ha influito sul futuro dell’Unione sono state le politiche che hanno definito il suo Assetto territoriale, economico, politico e culturale.
Quella che si vede qui accanto è un’immagine che illustra qual era l’assetto territoriale all’1/1/1986 dell’allora Comunità economica europea. Ho scelto questa mappa politica, poiché credo sia uno spartiacque, oltre il quale alcune decisioni scellerate compromisero lo sviluppo di un’unione forte e coesa. Inoltre, se i successivi mutamenti socio-politici non avessero soverchiato gli assetti geopolitici in auge fino ad allora, probabilmente quello raffigurato sarebbe stato l’assetto territoriale, economico, politico e culturale ideale per affrontare le sfide che attendevano la futura UE. Ma in seguito, come noto, la storia ci avrebbe consegnato la più grossa rivoluzione europea dal secondo dopoguerra. Gli sconvolgimenti seguiti alla caduta della cortina di ferro, quali la drammatica disgregazione della Jugoslavia, il sanguinoso epilogo del regime rumeno, ma anche la scissione pacifica e civile della Cecoslovacchia, le evoluzioni della Polonia di Walesa e, naturalmente, la riunificazione delle due Germanie, non potevano lasciare indifferente e impermeabile quella che dal 1993 sarebbe diventata Unione Europea. Perciò il problema non fu l’inevitabile evoluzione di questo assetto, ma il modo in cui è stata condotta questa sfida vitale: a partire dagli anni ’90 fino ai nostri giorni, alle istituzioni comunitarie è mancato uno spirito critico che consentisse di ponderare attentamente quale dovesse essere l’assetto territoriale, economico, politico e culturale dell’Unione degli anni 2000. In preda a facili entusiasmi, nel giro di pochi anni si è dato seguito pressoché incondizionato alle richieste di adesione di qualunque stato ne facesse richiesta: da Romania e Bulgaria, appena uscite da un fosco regime dittatoriale oltre il quale regnava il caos più assoluto, la cui fragile economia e le labili regolamentazioni concorrono alle distorsioni di flussi immigratori che tutti conosciamo – e di cui solo ora manifestano perplessità diversi paesi come Germania e Gran Bretagna – alla Finlandia, ora tra i più avversi oppositori delle politiche di sviluppo comunitarie (ma non potevano pensarci prima?), alle remote Repubbliche baltiche, di cui poco o niente conosciamo, e non certo per colpa loro. La latitanza di organismi che promuovano e diano seguito a politiche di informazione costante, diffusione di cultura europea, integrazione tra gli stati è solo una delle sfaccettature di una dissennata gestione che non ha saputo vagliare con attenzione i fondamenti democratici di neonate repubbliche (si veda il caso ungherese), il loro assetto economico e sociale, e, soprattutto, senza avere prima costruito una rete di istituzioni forti, coese e indipendenti dall’influenza dei singoli stati.

Ma a questo punto che fare? Occorre ripartire dall’unico labile tentativo di filtrare l’entrata di nuovi stati membri, quella sorta di “anticamera temporale” in cui confluiscono i cosiddetti candidati all’adesione in attesa di capire se saranno idonei (vi risiedono attualmente Macedonia e Turchia) e ripensare e rafforzare questo concetto. In questa sorta di status intermedio, metodicamente definito sulla base di parametri elementari e dei principi fondanti l’Unione, potrebbero risiedere i paesi candidati come oggi, ma anche, in maniera più flessibile, farvi ritorno i paesi che in effetti non rispettano più parametri e principi o non vi si riconoscono più – si veda, tra gli altri, la già citata Finlandia o, per motivi diversi, Grecia, Ungheria, Slovenia. Sarebbero comunque previsti rapporti privilegiati col resto dell’Unione.

Solo in questo modo un nucleo di stati che ci crede davvero avrebbe seriamente la possibilità di fondare gli Stati Uniti d’Europa, senza pretesti o prevaricazioni e, è fondamentale, lasciando sempre la porta aperta a chi vuole entrare – o rientrare – e abbia i requisiti per farlo.

Leggo dal sito “http://www.europa.eu”, sezione “I padri fondatori dell'UE”: “…leader visionari, hanno ispirato la creazione dell'Unione europea in cui viviamo oggi. Senza il loro impegno e la loro motivazione non potremmo vivere nella zona di pace e stabilità che oggi diamo per scontata. Combattenti della resistenza o avvocati, i padri fondatori erano un gruppo eterogeneo di persone mosse dagli stessi ideali: la pace, l'unità e la prosperità in Europa. Oltre ai padri fondatori […] molti altri hanno ispirato il progetto europeo e hanno lavorato instancabilmente per realizzarlo”.

Chissà dove sono finiti i loro eredi e i loro ideali e cosa ne penserebbero di questa Europa sfilacciata, inconsistente, eppure dalle così grandi potenzialità.

Immagine tratta dal sito http://europa.eu

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